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La storia di Rossella Bianchi, trans del Ghetto di Genova

Rossella Bianchi

Lunedì 27 giugno 2016 abbiamo intervistato Rossella Bianchi, presidentessa dell’Associazione Princesa, in preparazione alla presentazione del suo libro “Angeli con le ali bagnate” (Imprimatur, 2016). È stata un’occasione per ascoltare la storia di una persona coraggiosa che ha saputo fare scelte forti e difficili e per riflettere sui cambiamenti di Genova e del modo di considerare la transessualità.
Qui il testo e il video.

Fin dalla prima adolescenza ho capito che c’era qualcosa di diverso in me. Non ne avevo perfetta coscienza, ma capivo che era una cosa che dovevo nascondere e così ho fatto per molti anni. La mia paura era soprattutto di farlo capire alla mia famiglia, perché, dai discorsi che sentivo fare da mio fratello maggiore e da mio padre, sapevo che non sarei stata accettata.

Arrivata a 15-16 anni, avendo conosciuto anche altri nella mia situazione, ho capito che avevo davanti a me due strade: o sembrare o essere. Sembrare significava nascondere la mia vera identità sessuale e fare come facevano tutti gli altri ragazzi: cercare di fidanzarsi e andare con le donne; poi di nascosto avrei avuto una seconda vita. Oppure essere e quindi dichiarare al mondo quello che ero. Naturalmente questo presupponeva di pagarne le conseguenze, perché 60 anni fa era un atto di coraggio, era molto più difficile di adesso.
Io ho scelto la seconda opzione. Non me ne pento, però ho dovuto lottare contro cose immense, contro ostacoli di tutti i generi, nella scuola, nella famiglia, nella società.

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I miei genitori, appena hanno capito quello che ero, mi hanno praticamente messa agli arresti domiciliari. Non potevo più uscire, mi cronometravano anche il percorso da casa a scuola. Non potendo quindi fare incontri di nessun tipo, sono arrivata al punto di crearmi un fidanzato immaginario, al quale scrivevo numerosissime lettere appassionate che naturalmente non spedivo. Un giorno mia madre però ha trovato nascosta in un cassetto tutta questa serie di lettere indirizzate a Giorgio.

Cosa potevo dire? Che era un fidanzato immaginario?
A quell’epoca c’erano i manicomi aperti per quelli come noi e allora ho preferisco dire che il fidanzato esisteva veramente; loro mi hanno fatto giurare che avrei troncato questa relazione e mi hanno promesso che mi avrebbero regalato una bicicletta nuova. A questo punto io ho sacrificato il fidanzato immaginario per la bicicletta. Posso dire che questa è stata in assoluto la mia prima marchetta, perché ci sono tanti modi di prostituirsi e questo è uno di quelli.

Col passare del tempo ho cominciato ad avere fidanzati veri, quindi in casa ho avuto problemi grossissimi: mia madre che piangeva e pregava; mio padre imprecava; consulti con i medici; consulti con i preti.
Fui mandata a Lourdes per chiedere la grazia alla Madonna, che avrebbe dovuto farmi ritornare normale! Me ne sono ben guardata ed evidentemente la Madonna aveva cose più importanti da sbrigare. Nel frattempo io ho fatto il mio piccolo miracolo, perché rimorchiare un bel ragazzo a Lourdes, credetemi, è un miracolo.

Io non prendevo la vita dal lato drammatico. Leggendo il mio libro si può pensare che abbia avuto un’adolescenza tristissima, un’adolescenza piena di paure e di rimorsi. Avevo anche quelli, però avevo quell’incoscienza giovanile che mi faceva vincere tutto e mi buttavo ogni cosa alle spalle.
Ho vissuto una vita a momenti drammatica, a momenti allegra, ma le cose drammatiche col senno di poi non son più così drammatiche e quello che adesso rimane, tutto sommato, è soltanto la sensazione di essermi divertita moltissimo quando avevo 18-20 anni.

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Una volta preso il diploma di ragioneria ho capito che a Lucca, essendo conosciutissimo, non avevo chance lavorative; ho capito che dovevo cambiare città. Avevo ormai quasi vent’anni e la prima idea che mi è venuta è stata quella di cercare d’entrare nell’ambiente del cinema, perché due miei amici gay, uno di Pisa e uno di Lucca, erano andati a Roma e uno aveva fatto addirittura un film con Sofia Loren.
Sono andata a Roma e ho cominciato ad incontrare persone, finché ho conosciuto un ragazzo gay. Era Marcella Di Folco, ma allora era ancora Marcello.
Lui mi ha detto: “Io ti posso aiutare a fare delle comparse. Son 5.000 lire a comparsa e il cestino del pranzo.”
Infatti ho fatto qualche comparsa così.

Lui mi ha detto: “Vorrei farti avere il tesserino di generico, però senza aver frequentato il centro sperimentale cinematografica è quasi impossibile. Cercherò di fartelo avere.”
Un giorno viene e mi dice: “Guarda, sono riuscito a farti avere il tesserino di generico. Dimmi grazie perché è un bel salto in avanti. D’ora in poi non son più 5.000 lire, ma son 50.000, anche se non parli, anche se è solo un primo primo piano.”
Ed io ero felicissima.
Quindi un giorno mi dice d’avermi trovato una piccola parte. Cinecittà apriva alle 7:00, ma io alle 6:00 ero davanti ai cancelli emozionatissima.
Alle 7:00 arriva anche Marcello e cerchiamo il regista.

Era un musicarello. C’era Giacomo Rondinella, un film di serie B.
Il regista mi disse: “Guarda, tu non devi dire niente, devi semplicemente fare questo. Sei ai bordi della pista mentre i ragazzi ballano; ad un certo punto una ragazza lascia la pista, ti prende e ti porta a ballare un twist. Poi il twist diventa un ballo lento, tu cerchi di abbracciarla e arriva il suo ragazzo che ti scaraventa via. Fine. Non devi aprire bocca, non devi dire niente. Semplicissimo!”
Semplicissimo, se sapessi ballare il twist.

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Ha guardato Marcello: “A Marce’, ma che me porti qua, l’unico frocio in tutta Roma che non sa balla’ “
E così… via… a casa… fine. Sono arrivato in pensione senza una lira.
Avevo una scatoletta di tonno di due giorni, conservata in piena estate senza frigo. L’ho mangiato e già la notte avevo nausea, l’indomani brividi e febbre a 39°. Un’epatite per intossicazione da cibo.
Così sono dovuta tornare a Lucca e la mia carriera cinematografica è finita.

Ho cercato lavoro tramite una conoscenza che mi ha proposto d’andare a lavorare all’Automobil Club di Savona e iniziai un mese di prova. Durante questo mese io naturalmente la sera uscivo e avevo conosciuto dei trans che già lavoravano a Savona; lì ho cominciato a truccarmi un po’ anch’io.
Qualcuno dei miei colleghi mi avrà sicuramente visto, perché si è sparsa la voce che io avevo un comportamento non tanto da impiegato. Infatti la mia capo ufficio mi chiamò e mi disse: “Guarda, io non ho niente da lamentarmi, lavori benissimo, sono contenta di te, però circolano delle brutte voci. Dovresti farti velocemente una fidanzata, per farle finire.”

Mancavano pochi giorni alla scadenza della prova. Io mi sono fatta dare i miei soldi e invece di farmi la fidanzata, mi son presa un treno Savona-Genova. Arrivata a Genova ho ritrovato le mie amiche di qualche anno prima, che erano diventati tutti travestiti e prostituendosi guadagnavano in una sera quello che io avevo guadagnato in un mese.

A me sarebbe piaciuto fare l’impiegata, ma se me l’avessero lasciato fare.
Dal momento che per fare l’impiegato dovevo prendermi una fidanzata e dovevo rinunciare a ciò che sono, ho preferito godermi la mia libertà, in tutti i sensi. Via tutti i pregiudizi morali, i pregiudizi religiosi, che mi aveva inculcato la famiglia. Ho lasciato tutto. Cinicamente mi sono messa a fare il lavoro che all’epoca facevano tutte le trans.
Ora qualche via aperta le trans ce le hanno. All’epoca non c’erano vie d’uscita, o quello… o quello.

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