Le rappresentazioni del martirio di San Sebastiano vengono considerate dalla comunità LGBT come un’icona della sensualità e fisicità omoerotica; inoltre spesso vengono accreditate dai gruppi e associazioni di gay credenti come il Santo patrono degli omosessuali. Ovviamente non è un patronato riconosciuto dalla Chiesa cattolica.
Giovanni Dall’Orto ha provato a mettere insieme, in ordine cronologico, un po’ di elementi importanti per tentare una ricostruzione della lunga storia di questo simbolo, iniziata probabilmente durante il Rinascimento (www.giovannidallorto.com). Spiega che San Sebastiano deve aver interessato gli artisti del Cinquecento per la bella anatomia di corpo maschile adulto, ma che non doveva essere necessariamente un interesse omoerotico.
Le opere rinascimentali che raffigurano San Sebastiano, tra cui Tintoretto, Mantegna, Tiziano, Guido Reni, Giorgione, Botticelli e Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma, sono forse il primo contributo ad ispirare un culto esplicitamente omosessuale del santo nel XIX secolo (www.glbtqarchive.com). Il testo in cui sembra di poter riconoscere per la prima volta il simbolo come è visto oggi è l’opera teatrale Martyre de saint Sébastien di Gabriele D’Annunzio. Messo in scena nel 1911 con le musiche di Claude Debussy, vide il ruolo principale ricoperto da una donna, la ballerina Ida Rubinštejn.
Una delle immagini più famose del martirio del santo si trova proprio a Genova: il Martirio di San Sebastiano dipinto da Guido Reni (Bologna, 1575 – Bologna, 1642) conservato presso Palazzo Rosso dei Musei di Strada Nuova (Primo piano nobile, sala 4 dedicata ai pittori emiliani).
Lo scrittore giapponese Yukio Mishima racconta nel suo romanzo autobiografico Confessioni di una maschera (1948) d’essere stato profondamente affascinato dal dipinto di Guido Reni, al punto da portarlo ad avere da adolescente il primo orgasmo della sua vita. Ne rimase talmente ossessionato da farsi fotografare nudo sotto le spoglie del santo nel 1968 (www.finestresullarte.info).
Il famoso dipinto, divenuto proprietà della famiglia Brignole – Sale già dalla fine del Seicento, è quindi pervenuto nelle collezioni comunali nel 1874, grazie all’imponente donazione di Maria Brignole – Sale De Ferrari, duchessa di Galliera.